FIRST TIME di Germana Blandin Savoia
Dietista autrice blogger
Giorno 10 Maggio: primo giorno.
Ore 12,30 Sala Azzurra
La liberazione del Campo di
Auschwitz
raccontato dall’ ex deportato Sig.
Bogdan Bartnikowski.
La sala si sarebbe riempita
all’inverosimile se le regole per la sicurezza lo avessero
consentito. E sarebbe stato giusto perché parlare oggi di
internamento in un campo di prigionia e del lungo viaggio che
ciascuno dei prigionieri ha patito è ancora importante e
fondamentale non perdere la memoria di chi l’ha vissuto.
Prima dell’arrivo dei russi le SS
bruciarono quasi tutti i documenti che erano testimoni delle loro
nefandezze. Tuttavia il centro documentale del Museo di Auschwitz ha
eseguito un importate lavoro di raccolta di tutto ciò che è
rimasto, perché molti documenti e foto sono state recuperate ed ora
costituiscono un libro degno di nota.
Poi il Sig. Bodgan inizia a parlare:
“Sono nato a
Varsavia nel 1932 avevo dodici anni quando sono stato deportato. Era
l’1/8/1944 quando ci fu l’insurrezione in Varsavia contro
l’occupazione tedesca. La risposta non si fece attendere gli
abitanti dovevano essere sterminati: così era deciso. Le munizioni
non erano però sufficienti, restavano ancora 600mila abitanti e
quindi furono deportati. Dapprima in un campo provvisorio e poi un
lungo viaggio senza conoscere la meta dal 10 all’11 agosto 1944.
Faceva molto caldo nei vagoni di ferro chiusi quasi ermeticamente, il
tanfo emanato aumentava, chi provava ad aprire veniva fucilato
immediatamente dalle guardie. Poi si seppe il nome della destinazione
era Auschwitz, un nome a noi sconosciuto, che però divenne impresso
nelle nostre menti.
Il cancello della morte ci attendeva e
il treno lo varcò.
Nella penombra scorgemmo due altissimi
camini, il fumo che diffondevano era acre e rendeva impossibile il
respirare. Noi non lo sapevamo ancora, ma stavano bruciando in quel
momento gli ebrei ungheresi e gli zingari.
Scesi dal convoglio, ci fu la prima
selezione: gli uomini da un lato, dall’altro donne e bambini. Erano
le prime ore notturne del 12/8/1944 e quello era il primo treno che
portava gli insorti di Varsavia.
Il mio numero è: 192731.
Capii dopo alcuni giorni che questo era
il mio numero di riconoscimento.
Eravamo 5000 di cui 500 bambini di
Varsavia ammassati lì in quel momento. L’appello veniva fatto ogni
giorno eravamo 150 ragazzi ordinati in fila x 5.
Inizia la vita nel campo, diversa da
quella che avevamo solo pochi giorni prima. Con indosso una sola
casacca, sporco e le scarpe che avevo conservato dalla mia vita
precedente. Privo di tutto, privo degli affetti, così tutti gli
altri, avevamo lasciato padre, madre, fratelli.
Il nostro gruppo era formato da ragazzi
che avevano dai 10 ai 15 anni.
Chiedevamo al Kapò il motivo per cui
ci trovavamo lì e cosa avevamo fatto di male.
La risposta: < Da qui si esce solo
attraverso il camino >.
Ma la speranza non moriva, gli adulti
ce la fornivano e noi credevamo in loro, sapevamo che un giorno
saremmo usciti vivi.
Ci aspettava una razione giornaliera di
2 etti di pane, ½ litro di zuppa composta da una brodaglia priva di
nutrimenti dove galleggiavano foglie di cavolo, e del tè blando. Ma
i Kapò ci derubavano del pasto e parte di ciò che ci era destinato.
Gli adulti che venivano a trovarci ci davano del cibo a compensare,
inoltre ci chiedevano se i kapò ci facessero oltraggio o venissimo
picchiati e quando li indicavamo, i kapò erano linciati dagli
adulti.
Non venivamo utilizzati per lavori
pesanti, però eravamo utilizzati solo per un’attività:
sostituivamo i cavalli da tiro. Eravamo utilizzati come cavalli
attaccati al carro per il trasporto interno del campo. Eravamo
animati dalla speranza che con quel carro saremmo andati nel campo
femminile per incontrare le nostre mamme. Fortunatamente per noi le
donne non furono portate al lavoro mattutino e si trovavano nel campo
proprio quel mattino lì, tre mesi dopo potei abbracciare la mia
mamma e fu per me la gioia più grande.
Nel gennaio 1945 i tedeschi
trasferirono donne e bambini in altri campi in prossimità di
Berlino. Fummo deportati in un campo di lavoro forzato con mia madre
a lavorare per rimuovere le macerie ogni qual volta si formavano.
Lavoro duro sotto le continue incursioni aeree.
La consapevolezza però che la guerra
era sul finire e la gioia di essere usciti da Birkenau ci
accompagnava. Eravamo in un campo a Nord Est di Berlino, il 22/4/1944
fummo liberati, quasi per primi. Potevamo quindi tornare a casa anche
se il viaggio durò diverse settimane, a piedi e sui carri, ma
ritornammo a Varsavia. La nostra casa era inagibile, il nostro
appartamento nel condominio era andato completamente incendiato e mio
padre era morto in una delle battaglie dell’insurrezione.
Così finì la mia erranza durante la
guerra. Certo è che io e i miei compagni del Lager non siamo mai
usciti da quel campo che ci accompagnerà fino alla fine della nostra
vita!”.
Al termine della sua testimonianza l’ho
raggiunto sul palco, ringraziato e l’ho pregato di continuare a
parlare ai giovani perché comprendano, e perché non si abbiano mai
più a ripetere le atrocità dei campi di sterminio. Congedandomi gli
ho chiesto come ricordo una foto, come fosse mio nonno che ha
attraversato le pagine della nostra storia appena trascorsa.
Alla gentile traduttrice indicando lo
slogan del salone del libro di quest’anno ho comunicato che
quest’articolo s’intitola:
“UN GIORNO, TUTTO QUESTO, E’
ACCADUTO”.
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